martedì 29 novembre 2011

Giovanni Segantini, Le cattive madri, 1896-97



Siamo a Maloggia, Svizzera di fine Ottocento, l'eremita Giovanni Segantini si appresta a realizzare il Trittico della natura, considerato il suo estremo capolavoro. Prima, però, si concede un attimo di pura autoriflessione. Ed allora nasce Le cattive madri, racconto di madri che lasciano i figli e ricordo di un'infanzia vissuta nella nostalgia di un tragico abbandono.
La rivedo con l’occhio della mente quella sua figura alta, dall’incedere languido. Era bella, non come aurora o meriggio, ma come tramonto di primavera...
Così la dipinge nel pensiero. Morì a ventinove anni. Giovanni ne aveva soltanto cinque.
L'engadinese, ora, non chiede altro che poter godere del latte negatogli da infante, di quell'accudimento concesso a tutti i figli di madri buone. Le madri cattive pagano pegno delle loro mancate cure attraverso questa allegoria di reminiscenze dantesche: costrette a nutrire le proprie creature - come gli alberi radicati alla terra sostentano i loro frutti - s'incamminano in processione alla ricerca della pianta che cela la prole da esse generata. Avanzano consapevoli del destino che le attende: una volta avvolte dalla folta chioma rossa che le avviluppa al tronco, assomigliano a bachi sospesi tra terra e cielo. I corpi inarcati per porgere il seno, i capelli che s'innalzano ed al contempo le costringono, tutto sembra preludere ad un'ascesa irraggiungibile. Questa è la loro condanna.
Nel paesaggio alpino innevato, le donne si distanziano ampiamente l'una dall'altra: si svela un sentimento di tale solitudine da far suppore che nessun'altra compagnia possa esservi per loro se non quella dei propri bambini. Un sovrumano silenzio copre tutti gli spazi, né alcuna delle figure intende aprir bocca per spezzarlo. Il muto dolore delle madri cattive è l'emblema della loro assenza.
Pare quasi di udire, fuori dal tempo, un'eco di Pasolini.
È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…
Aprile, però, è il più crudele dei mesi.

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