sabato 3 dicembre 2011

Jacek Malczewski, W tumanie, 1893-94


Ho sempre avvertito una stretta connessione tra le madri di Segantini e questa visione di Jacek Malczewski. Il periodo è lo stesso, ma la poetica del Polacco è permeata di riferimenti romantici ed accezioni simboliche. Dalle madri si passa ai padri; dai padri alla Madre Patria. Emerge, assieme al soggetto, il tema del martirio: la Polonia scheletrica è incatenata e, sotto di lei, i suoi eterogenei figli si contorcono come anime dannate. Sullo sfondo una striscia fittissima di alberi si apre al cielo solo al suo termine estremo. Un messaggio, dunque, di ermetica speranza in una guerra che, attraverso dolori e sofferenze, porti ad una meritata liberazione. Non più Regno del Congresso, non più Stato vassallo succube dell'autocrazia zarista: la Polonia vuole un'indipendenza che le garantisca il già acquisito (per quanto dorato) ordinamento democratico. Purtroppo gli occhi s'inumidiscono se tentiamo una lettura di Nella tempesta di polvere con il senno del poi.
Più a fondo il dipinto può essere interpretato in ottica propriamente escatologica. Non possiamo infatti sorvolare sulla religiosità e sull'aspettativa messianica del Pittore, né possiamo dimenticare i crudeli esiti.
La scena, allora, assume cromatismi così lontani nel tempo da parere tremendamente vicini. Dopo tante perdite quali sono state le conquiste polacche?
Forse è meglio interrogarsi soltanto un attimo e poi lasciarsi nuovamente rapire dalla luce aurea dei campi in cui s'innalza, come monito perpetuo, la nuvola dell'angoscia.
Il successo divide i polacchi, la povertà li avvicina, la disgrazia li unisce.
Powodzenie dzieli Polaków, bieda zbliża, nieszczęście – łączy.
Józef Bułatowicz

martedì 29 novembre 2011

Giovanni Segantini, Le cattive madri, 1896-97



Siamo a Maloggia, Svizzera di fine Ottocento, l'eremita Giovanni Segantini si appresta a realizzare il Trittico della natura, considerato il suo estremo capolavoro. Prima, però, si concede un attimo di pura autoriflessione. Ed allora nasce Le cattive madri, racconto di madri che lasciano i figli e ricordo di un'infanzia vissuta nella nostalgia di un tragico abbandono.
La rivedo con l’occhio della mente quella sua figura alta, dall’incedere languido. Era bella, non come aurora o meriggio, ma come tramonto di primavera...
Così la dipinge nel pensiero. Morì a ventinove anni. Giovanni ne aveva soltanto cinque.
L'engadinese, ora, non chiede altro che poter godere del latte negatogli da infante, di quell'accudimento concesso a tutti i figli di madri buone. Le madri cattive pagano pegno delle loro mancate cure attraverso questa allegoria di reminiscenze dantesche: costrette a nutrire le proprie creature - come gli alberi radicati alla terra sostentano i loro frutti - s'incamminano in processione alla ricerca della pianta che cela la prole da esse generata. Avanzano consapevoli del destino che le attende: una volta avvolte dalla folta chioma rossa che le avviluppa al tronco, assomigliano a bachi sospesi tra terra e cielo. I corpi inarcati per porgere il seno, i capelli che s'innalzano ed al contempo le costringono, tutto sembra preludere ad un'ascesa irraggiungibile. Questa è la loro condanna.
Nel paesaggio alpino innevato, le donne si distanziano ampiamente l'una dall'altra: si svela un sentimento di tale solitudine da far suppore che nessun'altra compagnia possa esservi per loro se non quella dei propri bambini. Un sovrumano silenzio copre tutti gli spazi, né alcuna delle figure intende aprir bocca per spezzarlo. Il muto dolore delle madri cattive è l'emblema della loro assenza.
Pare quasi di udire, fuori dal tempo, un'eco di Pasolini.
È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…
Aprile, però, è il più crudele dei mesi.

mercoledì 29 aprile 2009

Luis Ricardo Falero, A Fairy Under Starry Skies, Fine 1800


Con uno sforzo supremo la creatura divina tenta di opporsi alle forze naturali: troppa luce turba la sua serenità, mentre il vento ne sospinge il corpo evanescente. Dove, è ignoto. Non bastano le grandi ali a proteggerla dall’intrusione molesta, né i lunghi capelli a coprire il collo della fata. Eppure sorride, ha un’aria giocosa. Si rifiuta di vedere il suo stesso corpo nudo impudicamente illuminato, di illuminare il volto: con il braccio sinistro copre gli occhi, mentre la gamba destra, ugualmente piegata, è in parte velata da un’ampia veste trasparente, e tenta di sorreggere il corpo cadente. Rarefatta, diafana sullo sfondo scuro, la fata è scomposta ed impotente, mantiene tuttavia la sua grazia sovrumana: le dita sono perfette, sinuose e sottili come fiamme. Il braccio destro e la gamba sinistra sono tesi diagonalmente, corrispondenti perfetti l’uno dell’altra. La fata silvestre ha vegetali nei capelli, ali di uccello, nulla di umano a parte il sorriso ed i movimenti istintivi: il suo è un timore lieve, eccitato, curioso. Precipita in un vuoto misterioso ed arcano, in un lugubre, grigiastro buio indefinito, incoerente, sconosciuto; sarà forse il velo fumoso a salvarla, ad avvolgerla? Il velo che già le trattiene un piede?
E’ troppo perfetta per sembrare una fanciulla umana, la fata di Falero: è pura onirica immaginazione, un’idea ispirata e dipinta, non senza colte reminiscenze (la Danae di Correggio, levigata e rosea). La sua caduta allucinata è espressione di un desiderio oscuro, la dea inghiottita da un antro feroce: abbandonata all’ignoto, nulla la salva, la sua bellezza assoluta e perfetta non sono sufficienti. Non ha forza; è indifesa, è un’ombra infelice e modesta rispetto alla mostruosità delle grotte terrestri, una ninfa ingenua e prepubere che si copre gli occhi e preferisce vivere gli ultimi attimi antecedenti la caduta in una rassicurante sospensione, senza conoscere quale sia il suo destino.
Il dipinto trasmette una sensazione di ansia, inquietudine: ritrae un momento di tensione estremamente breve, fulmineo, intermedio tra la stabile aderenza al suolo e la rovina nel vuoto; così, ad esempio, il celebre Discobolo di Mirone scolpiva nel marmo il corpo dell’atleta nel momento di massima tensione.

martedì 28 aprile 2009

Saturno Buttò, Salomè, 2007


Non si tratta della narrazione dell'episodio, piuttosto di un panorama immaginifico ucronico nel quale l'elemento classico (la testa mozzata del Battista portata nel piatto, la struttura sacrificale dell'opera) si mescola con uno stile goticamente lowbrow, dove è chiaro il debito all'ornamentalismo fiammingo.
Buttò intavola una serie d'elementi che creano dislivello (volontario) tra l'elevatezza del macabro e la bassezza del consueto; ma la testa, che pare servita su questa tavola imbandita, pronta per essere posta nel piatto dell'immorale (o amorale?) Salomé, piatto rivolto però allo spettatore stesso (che sempre assiste scoptofilico al presente e pregusta gli eventi futuri), crea un inganno compiaciutamente sadico, fedele all'ottica feticista dell'autore.


Gli sguardi dei personaggi in scena non s'incontrano: l'effetto è spiazzante, anche perché raramente il pittore non scruta, attraverso gli occhi dei suoi protagonisti, il vergine osservatore, penetrandone la psiche. Abbiamo dunque lo sguardo rivolto verso l'alto di Salomé che, artefice dell'infausto compiersi, si dipinge, regista e pittrice del teatro visionario circostante, con pennellate sensuali ma perse nella vanità dei toni puramente sacrificali; quello vacuo della figura in secondo piano, probabilmente una caravaggesca Erodia, madre della giovane, a volto e capo coperto, la quale serve la vittima con l'apaticità dell'habitué e riassume in sé le figure dell'ancella e del carnefice (non è casuale l'ambigua fisicità dello statuario personaggio) . La testa morta di San Giovanni giace leggermente rialzata nel vaso, quasi al di sotto di questa vi fosse un liquido che la sorregga, ed ha gli occhi chiusi e la bocca socchiusa mentre si erge avvolta in un'estatica aurea mortale; il capo è calvo ed il volto rasato, privo della tradizionale chioma per mezzo della quale veniva violentemente agguantato ed innalzato verso il pubblico.
Nell'opera l'aspetto devozionale e votivo assume come fine la morte; la corporalità si dimostra sì nel suo segmentato particolarismo (la testa mozzata, gli occhi come unico riferimento umano/disumano nella figura della "madre, cuoca e servitrice"), ma al contempo nella sua unità attraverso il corpo femminile e fanciuellesco della giovane sdraiata in primo piano, invaghita del niente come una vergine ottocentesca, pur tuttavia misteriosamente coperta, oltre che ai piedi, nella fascia pubica, quasi che un intatto segreto si celi al di là del suo mostrarsi spoglia di timori o, più generalmente, di emozioni.
Infine la golosità dei pasti, tra i quali spiccano la ricchezza dell'uva, la fertilità dell'arancia e la squisitezza di un dolce proibito morsicato golosamente, contrasta con i valori casti del giglio e la purezza dei piatti ancora non insudiciati dalla pietanza di prossimo consumo, forse ad indicare l'etica anti-etica del poeta e l'umana ambiguità (per restare in tema sacrificale potremmo ricorrere ad una classicheggiante retorica ossimorica e rubare un casta inceste lucreziano).


Un complotto sessuale che ci rende vittime dei nostri corpi; il sangue c'è, non si vede perché, e l'artista lo sa bene, esplicitarlo è macabro, mantenerlo implicito è perverso. Il godimento di Buttò è all'insegna della depravazione visiva dove motivi sacrali e magia profana si fondono e confondono dimostrando l'origine comune, ma la nostalgia della linearità allegorica classica domina l'inferno della pennellata emotiva. Il soggetto, nella sua atarassia, sconvolge il contesto.


Mi vengono in mente così, data l'atmosfera, alcuni versi di Mallarmé:
"J'aime l'horreur d'être vierge et je veux
Vivre parmi l'effroi que me font mes cheveux
Pour, le soir, retirée en ma couche, reptile
Inviolé sentir en la chair inutile
Le froid scintillement de ta pâle clarté
Toi qui te meurs, toi qui brûles de chasteté
Nuit blanches de glaçons et de neige cruelle!"

"L'orrore amo d'esser vergine e voglio
abitare lo spavento che mi fanno i miei capelli
per sentire, la sera, nel chiuso dell'alcova,
rettile inviolato, nell'inutile carne
il freddo scintillio del tuo pallido lucore,
tu che ti estingui, tu che ardi di castità,
notte bianca di gelo e di neve crudele!"


(da "Erodiade" di Stéphane Mallarmé)

lunedì 27 aprile 2009

Flusso cosmico

Usiamo troppi aggettivi: insensibile, concreto, felice, sconfinato. Ne basterebbero due: bello e brutto. Ognuno li legge a suo modo. In fondo tutto è così semplice, è bianco o nero, senza sfumature intermedie. Il cosmo è una sfumatura violacea che ci appanna la vista. Ma non potremmo farne a meno. Snervanti queste piccole frasi, vero? Occludono la mente, bloccano la fantasia, la mettono al muro. Basta un colpo di fioretto: sinistra dietro la schiena, mulinello e... meglio non pensarci. Meglio non uccidere la fantasia: serve una tuta protettiva. Possibilmente grigiastra: grigio ostrica, grigio perla, grigio Luna, la Luna galileiana con crateri, valli, colline, monti, imperfetta e fatalmente attratta, spira nel vortice gravitazionale, ancor non paga di riandare i sempiterni calli. Un satellite, questo è. Vile schiava delle passioni mondane, eppure celeste. Un celeste aggregato di rifiuti. Celestiale, disgustosa: piegati, Luna, inchinati alla potenza terrestre.
Intercetti la Luna nel leggere queste parole? Parlo a te, a te che osservi lettere luccicanti sullo schermo di una macchina. Qual è il motivo? Pensaci. Com'è possibile che tu sia davanti ad un messaggio che viene dal cielo? Eppure è così. Cavi elettrici. Satelliti. Internet. Senza arroganza, senza presunzione, con reverenza celestiale inviamo queste parole al cielo affinchè ti pervengano.