Con uno sforzo supremo la creatura divina tenta di opporsi alle forze naturali: troppa luce turba la sua serenità, mentre il vento ne sospinge il corpo evanescente. Dove, è ignoto. Non bastano le grandi ali a proteggerla dall’intrusione molesta, né i lunghi capelli a coprire il collo della fata. Eppure sorride, ha un’aria giocosa. Si rifiuta di vedere il suo stesso corpo nudo impudicamente illuminato, di illuminare il volto: con il braccio sinistro copre gli occhi, mentre la gamba destra, ugualmente piegata, è in parte velata da un’ampia veste trasparente, e tenta di sorreggere il corpo cadente. Rarefatta, diafana sullo sfondo scuro, la fata è scomposta ed impotente, mantiene tuttavia la sua grazia sovrumana: le dita sono perfette, sinuose e sottili come fiamme. Il braccio destro e la gamba sinistra sono tesi diagonalmente, corrispondenti perfetti l’uno dell’altra. La fata silvestre ha vegetali nei capelli, ali di uccello, nulla di umano a parte il sorriso ed i movimenti istintivi: il suo è un timore lieve, eccitato, curioso. Precipita in un vuoto misterioso ed arcano, in un lugubre, grigiastro buio indefinito, incoerente, sconosciuto; sarà forse il velo fumoso a salvarla, ad avvolgerla? Il velo che già le trattiene un piede?
E’ troppo perfetta per sembrare una fanciulla umana, la fata di Falero: è pura onirica immaginazione, un’idea ispirata e dipinta, non senza colte reminiscenze (la Danae di Correggio, levigata e rosea). La sua caduta allucinata è espressione di un desiderio oscuro, la dea inghiottita da un antro feroce: abbandonata all’ignoto, nulla la salva, la sua bellezza assoluta e perfetta non sono sufficienti. Non ha forza; è indifesa, è un’ombra infelice e modesta rispetto alla mostruosità delle grotte terrestri, una ninfa ingenua e prepubere che si copre gli occhi e preferisce vivere gli ultimi attimi antecedenti la caduta in una rassicurante sospensione, senza conoscere quale sia il suo destino.
Il dipinto trasmette una sensazione di ansia, inquietudine: ritrae un momento di tensione estremamente breve, fulmineo, intermedio tra la stabile aderenza al suolo e la rovina nel vuoto; così, ad esempio, il celebre Discobolo di Mirone scolpiva nel marmo il corpo dell’atleta nel momento di massima tensione.
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