martedì 28 aprile 2009

Saturno Buttò, Salomè, 2007


Non si tratta della narrazione dell'episodio, piuttosto di un panorama immaginifico ucronico nel quale l'elemento classico (la testa mozzata del Battista portata nel piatto, la struttura sacrificale dell'opera) si mescola con uno stile goticamente lowbrow, dove è chiaro il debito all'ornamentalismo fiammingo.
Buttò intavola una serie d'elementi che creano dislivello (volontario) tra l'elevatezza del macabro e la bassezza del consueto; ma la testa, che pare servita su questa tavola imbandita, pronta per essere posta nel piatto dell'immorale (o amorale?) Salomé, piatto rivolto però allo spettatore stesso (che sempre assiste scoptofilico al presente e pregusta gli eventi futuri), crea un inganno compiaciutamente sadico, fedele all'ottica feticista dell'autore.


Gli sguardi dei personaggi in scena non s'incontrano: l'effetto è spiazzante, anche perché raramente il pittore non scruta, attraverso gli occhi dei suoi protagonisti, il vergine osservatore, penetrandone la psiche. Abbiamo dunque lo sguardo rivolto verso l'alto di Salomé che, artefice dell'infausto compiersi, si dipinge, regista e pittrice del teatro visionario circostante, con pennellate sensuali ma perse nella vanità dei toni puramente sacrificali; quello vacuo della figura in secondo piano, probabilmente una caravaggesca Erodia, madre della giovane, a volto e capo coperto, la quale serve la vittima con l'apaticità dell'habitué e riassume in sé le figure dell'ancella e del carnefice (non è casuale l'ambigua fisicità dello statuario personaggio) . La testa morta di San Giovanni giace leggermente rialzata nel vaso, quasi al di sotto di questa vi fosse un liquido che la sorregga, ed ha gli occhi chiusi e la bocca socchiusa mentre si erge avvolta in un'estatica aurea mortale; il capo è calvo ed il volto rasato, privo della tradizionale chioma per mezzo della quale veniva violentemente agguantato ed innalzato verso il pubblico.
Nell'opera l'aspetto devozionale e votivo assume come fine la morte; la corporalità si dimostra sì nel suo segmentato particolarismo (la testa mozzata, gli occhi come unico riferimento umano/disumano nella figura della "madre, cuoca e servitrice"), ma al contempo nella sua unità attraverso il corpo femminile e fanciuellesco della giovane sdraiata in primo piano, invaghita del niente come una vergine ottocentesca, pur tuttavia misteriosamente coperta, oltre che ai piedi, nella fascia pubica, quasi che un intatto segreto si celi al di là del suo mostrarsi spoglia di timori o, più generalmente, di emozioni.
Infine la golosità dei pasti, tra i quali spiccano la ricchezza dell'uva, la fertilità dell'arancia e la squisitezza di un dolce proibito morsicato golosamente, contrasta con i valori casti del giglio e la purezza dei piatti ancora non insudiciati dalla pietanza di prossimo consumo, forse ad indicare l'etica anti-etica del poeta e l'umana ambiguità (per restare in tema sacrificale potremmo ricorrere ad una classicheggiante retorica ossimorica e rubare un casta inceste lucreziano).


Un complotto sessuale che ci rende vittime dei nostri corpi; il sangue c'è, non si vede perché, e l'artista lo sa bene, esplicitarlo è macabro, mantenerlo implicito è perverso. Il godimento di Buttò è all'insegna della depravazione visiva dove motivi sacrali e magia profana si fondono e confondono dimostrando l'origine comune, ma la nostalgia della linearità allegorica classica domina l'inferno della pennellata emotiva. Il soggetto, nella sua atarassia, sconvolge il contesto.


Mi vengono in mente così, data l'atmosfera, alcuni versi di Mallarmé:
"J'aime l'horreur d'être vierge et je veux
Vivre parmi l'effroi que me font mes cheveux
Pour, le soir, retirée en ma couche, reptile
Inviolé sentir en la chair inutile
Le froid scintillement de ta pâle clarté
Toi qui te meurs, toi qui brûles de chasteté
Nuit blanches de glaçons et de neige cruelle!"

"L'orrore amo d'esser vergine e voglio
abitare lo spavento che mi fanno i miei capelli
per sentire, la sera, nel chiuso dell'alcova,
rettile inviolato, nell'inutile carne
il freddo scintillio del tuo pallido lucore,
tu che ti estingui, tu che ardi di castità,
notte bianca di gelo e di neve crudele!"


(da "Erodiade" di Stéphane Mallarmé)

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